Azzardando un improbabile paragone per definire la popolarità in Italia di due compositori che ci stanno a cuore, si potrebbe dire che Mozart sta a Joseph Haydn come il Concerto Imperatore sta al Concerto n. 4 di Beethoven: tutti conosceranno, almeno per sentito dire, il nome dell’autore cui è dedicato questo blog, mentre molti non sapranno neppure chi sia questo Haydn. Peggio: l’unica composizione di costui che sia un minimo familiare anche a chi non coltiva la passione per la musica classica, ossia l’inno tedesco, è nota al pubblico grazie alla partite di calcio, ma i più non sanno che è stato proprio Haydn, l’amicollega di Mozart, a comporlo. Con tutt’altre intenzioni, per di più, e per tutt’altro organico. Ma dimmi te, un quartetto per archi! Un genere che, fino a vent’anni fa, pensavo fosse il più noioso al mondo:
Tornando al paragone di partenza, chiunque abbia collezionato un minimo di capolavori musicali si sarà imbattuto nel Concerto Imperatore (op. 73 in mi bemolle) fin dalle prime uscite in edicola e ne avrà magari anche memorizzato il volo il tema conduttore, trascinante come si conviene a una melodia che sia divenuta popolare. Per arrivare a cogliere le finezze e la delicata complessione del Concerto n. 4 per pianoforte (op. 58 in sol) occorre superare quella parete di cui parlavo la volta scorsa.
Devo ricorrere narcisisticamente al solito aneddoto personale: il primissimo contatto sonoro con Haydn (dopo aver letto parecchio sul suo conto, a furia di acquistare biografie mozartiane) l’ebbi solo nell’estate 1993: ero un collezionista furibondo già da due anni e avevo finito di ascoltare l’opera omnia di Mozart un mese prima.
Accomodai sul piatto il mio primo CD haydniano (vedi qui sopra), convinto di fare la conoscenza di un compositore minore*. Non avevo mai sentito nessuna sua musica in un film o in una pubblicità, ergo doveva esser un minore per forza!
* In realtà il primo compositore effettivamente minore che le mie orecchie abbiano ascoltato è stato Johann Stamitz con i suoi Trii orchestrali (vol. 1), grazie alla benemerita Naxos, ma questa è un’altra storia.
Rimasi moderatamente soddisfatto di quelle sinfonie, ripromettendomi di prendere qualcos’altro in un prossimo futuro per farmi un’idea più precisa. Una ripromissione che venne mantenuta quattro mesi più tardi con altre sinfonie e, in particolare, un cofanettone che – complice l’esecuzione filologica e, quindi, molto più dimessa e “moscia” rispetto a quelle cui ero abituato – mi deluse alquanto.
Naturalmente Haydn rimase un compositore di sinfonie e basta ancora per un po’, alla faccia della sua sterminata produzione. Finché, nel dicembre ’93, non mi capitarono sotto mano cinque dischi della Licorne che fecero esplodere la passione anche per la musica del compositore di Rohrau: in quei CD figuravano alcuni quartetti (tra cui quello col famoso inno prima austriaco e poi tedesco) e un manipolo di concerti, ma i piatti forti del boxino erano le nove sinfonie ivi raccolte, una più bella dell’altra (gli Addii, Lamentatione, Salomon, il Fuoco, l’Imperiale, le n. 95 e 97, ecc.).
Naturalmente il compositore di trii e sonate era ancora parecchio di là da venire, nonostante le lodevoli iniziative della filodiffusione. In quegli anni lì fu proprio quest’ultima, infatti, a presentarmi per la prima volta una sonata haydniana, o meglio il suo ultimo movimento, Mi ricordò molto vagamente il Rondò alla turca ma, dal basso della mia inesperienza e avversione per tutto ciò che non era popolare, lo trovai deboluccio: